
La diminuzione del prezzo dei farmaci ha portato molte famiglie ad abbandonare i centri di cura di Alzheimer, portando l’intero sistema di cure a una riduzione. Ma affidarsi a specialisti non inseriti in servizi specializzati può ridurre l’attenzione verso l’evoluzione della malattia e, a lungo termine, ridurre la capacità generale del sistema.
di Marco Trabucchi
Gruppo di Ricerca Geriatrica
L’atteggiamento che maggiormente fa soffrire chi è colpito da una demenza è la sensazione che le sue personali problematiche cliniche siano vissute come marginali da parte del sistema sanitario nel suo complesso e dei singoli operatori nello specifico. In questo modo in chi è colpito aumenta la sensazione di impotenza rispetto alla malattia, di estraneità rispetto alle grandi problematiche delle quali oggi si occupa la medicina, anche di solitudine rispetto all’atteggiamento concreto di chi fornisce le cure.
Il malato, e in particolare il suo caregiver, percepiscono che la cura dell’Alzheimer non rientra tra quelle alle quali la medicina dedica attenzione, perché offre scarse soddisfazioni sul piano scientifico e su quello delle cure.
In questa sede non si vuole approfondire il vissuto di sofferenza soggettiva che accompagna chi è malato; ma chiunque, ai vari livelli di responsabilità, esercita una funzione di cura dell’Alzheimer non può trascurare questa condizione. La sensazione di impotenza, anche se alcuni operatori cercano di mascherarla, traspare dall’atteggiamento concreto, anche se non viene verbalizzata. Un’impotenza che spesso si trasforma, attraverso un meccanismo difensivo, in indifferenza.
Purtroppo questa condizione è condivisa da molti attori della medicina pratica, che ritengono più “remunerativo” sul piano psicologico occuparsi di malattie sulle quali è possibile incidere, anche se non sempre in modo risolutivo. È facile, a questo proposito, fare confronti, ad esempio, con la malattia di Parkinson, con la sclerosi multipla e altre patologie del sistema nervoso che recentemente sono state caratterizzate da “scoperte” sul piano farmacologico, realmente in grado di modificare la storia naturale delle diverse patologie, anche se non di curare alla radice la struttura fisiopatologica che le caratterizza.
Per cercare di spezzare questa catena di atteggiamenti negativi, che generano conseguenze dolorose sulla vita di malati e famigliari, di seguito sono presentate alcuni momenti del rapporto malato-famiglia-sistema delle cure che devono, per quanto possibile, essere analizzati al fine di predisporre modalità di azione efficaci per rispondere al bisogno degli ammalati e per impostare azioni concrete che portino a minimizzare l’indifferenza.
È necessario in premessa chiarire che le difficoltà sul piano fisiopatologico, purtroppo ancora rilevanti, non impediscono alla clinica di svolgere la propria funzione e di raggiungere risultati importanti per il benessere dell’ammalato e di chi vive attorno a lui. Il rischio dell’indifferenza si combatte prima di tutto con una forte azione formativa, che sottragga le demenze dalle nebbie dell’indistinto, per porle sullo stesso piano delle molte altre patologie ancora alla ricerca di risposte terapeutiche.
Un primo passo è rappresentato dalla medicina generale, il referente iniziale delle famiglie quando iniziano a percepire che la persona potrebbe essere affetta da una patologia della sfera cognitiva. Per molti anni vi è stata una forte resistenza a riconoscere che la perdita di memoria o il cambiamento di personalità fossero condizioni patologiche e non un evento correlato all’età.
La campagna per riconoscere che “invecchiare non è una malattia” ha svolto un ruolo importante e ha portato a una progressiva accettazione di un’idea di vecchiaia nella quale sono identificabili spazi di salute e spazi di malattia, questi ultimi sempre oggetto di interventi cura, qualsiasi sia l’organo o il sistema coinvolto. Così l’indifferenza del medico di famiglia è stata progressivamente vinta, per arrivare a oggi, quando possiamo affermare che la grande maggioranza di questi è sensibile, attenta alla sintomatologia, in grado di farsi carico nel tempo degli ammalati, predisponendo efficaci atti di cura dell’Alzheimer.
Un secondo passo positivo sulla strada di ridurre l’indifferenza è stato costituito dal progetto Cronos, che ormai diverso tempo fa ha istituito una catena di centri in grado di diagnosticare e curare le demenze (le famose Unità di Valutazione Alzheimer, UVA).
Per anni le circa 450 realtà diffuse in tutto il territorio nazionale hanno svolto una funzione di grande valore clinico, perché hanno dato risposta a molte centinaia di migliaia di cittadini, offrendo una diagnosi certa, indicazioni prognostiche e anche adeguate proposte cliniche. Purtroppo il tempo ha ridotto la capacità di queste strutture di rappresentare il fulcro della presa in carico dell’ammalato e il “centro direzionale” degli interventi svolti da altri attori del sistema sanitario e assistenziale.
Nel frattempo è intervenuto il Piano Nazionale Demenze, che ha costituito un punto di riferimento importante per l’azione delle varie Regioni, anche se è rimasto purtroppo scarsamente attuato, pur offrendo indicazioni di grande rilievo per arrivare a un sistema nazionale di cura delle demenze all’altezza degli altri paesi europei. Il suo peso “morale” è stato maggiore delle concrete ricadute pratiche, perché ha tolto qualsiasi alibi al sistema delle cure sull’importanza di sconfiggere l’indifferenza nei riguardi della demenza. Di fatto è sempre possibile fare qualche cosa di importante per il benessere di chi è colpito da una patologia della sfera cognitiva.
Oggi però sorgono altri problemi di rilievo rispetto alla cura delle demenze; devono essere affrontati con determinazione per evitare un ridimensionamento complessivo dell’attenzione per la problematica da parte del sistema sanitario.
Un primo aspetto riguarda il rischio che i pazienti e le loro famiglie non facciano più ricorso alle UVA (oggi denominate CDCD), perché i farmaci sono drasticamente diminuiti di prezzo dopo la loro “genericazione” e quindi diminuisce la spinta verso le strutture ad hoc, in grado di stilare i piani di cura. Il ricorso a specialisti non inseriti in servizi specializzati può ridurre l’attenzione verso l’evoluzione della malattia.
Così, dopo la diagnosi e la prescrizione farmacologica il malato prosegue per la sua strada senza avere un punto di riferimento stabile e informato. Questo atteggiamento rischia di ridurre la capacità del sistema di costruire efficienti e colti punti di appoggio continuo rispetto alla problematiche della comorbilità, della progressiva perdita di autosufficienza, alla possibilità di controllare i disturbi comportamentali, di impostare adeguate terapie sia farmacologiche che non farmacologiche.
In questo modo l’intero sistema delle cure dell’Alzheimer si ridimensiona nella sua efficaci, diminuendo quindi i vantaggi che apporta agli ammalati ma anche stimolando condizioni di indifferenza che si auto-moltiplicano e rischiano di dominare lo scenario.